"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.




lunedì 25 gennaio 2010

Recensione su greenreport.it


Il sito greenreport.it ha pubblicato una recensione al libro.
"Greenreport
ha evidenziato più volte come il mondo della ricerca abbia difficoltà a comunicare se stesso, a uscire dalle riviste scientifiche e presentarsi al mondo reale. Francesco Sylos Labini (Istituto dei sistemi complessi del Cnr, presso il centro Enrico Fermi di Roma), e Stefano Zapperi (fisico ricercatore al Cnr di Modena), hanno appena pubblicato per Laterza un saggio che analizza lo stato di salute della ricerca italiana, propone soluzioni e non nasconde i suoi obiettivi, tra cui quello «della qualità dell'informazione scientifica sui media, perché solo un'informazione corretta può dare una rappresentazione del problema che non sia distorta o artificialmente semplificata».

Forse proprio in questa frase è nascosto l'errore: sempre nell'introduzione ma poche righe sotto, Sylos Labini e Zapperi scrivono che «un'opinione pubblica matura e informata deve saper apprezzare e capire l'importanza strategica della ricerca, il suo ruolo nel progresso tecnico e scientifico della società, e anche la sua rilevanza per gli sviluppi applicativi e le ricadute economiche».

Semplicemente, se - e questo è giustissimo - bisognerebbe attendersi una risposta dall'opinione pubblica, allora anche la scienza dovrebbe non tanto informare, quanto comunicare sé stessa: il linguaggio e l'esclusività delle pubblicazioni scientifiche infatti, mal si adattano a un'opinione pubblica educata e cresciuta a base di ben altri messaggi... soprattutto in prima serata...

Quello della comunicazione scientifica è quindi un vulnus che i due ricercatori mettono a nudo nel loro libro anche successivamente, quando confrontano il rapporto che contiene le relazioni di tutti i dipartimenti del Cnr ("256 pagine fitte di testo, [...] un tomo purtroppo illeggibile: vi è una lista infinita e incoerente di risultati, collaborazioni, finanziamenti. Non si capisce quali siano i risultati veramente importanti che il Cnr potrebbe e dovrebbe realizzare [...] sembra insomma che questo documento non sia stato scritto perché qualcuno lo potesse leggere, ma perché qualche regolamento ne prevedeva la stesura") con il rapporto del Cnrs francese ("veste grafica accattivante in cui vengono elencati i principali risultati scientifici divisi per campi disciplinari [...] l'impressione è quella di una rapporto rivolto al lettore [...] al quale se ne affiancano altri per il grande pubblico che mostrano quello che fa per il Cnrs per la società e il suo impatto economico").

Il tema del difficilissimo rapporto tra la scienza e la comunicazione, tra gli scienziati e i media e poi l'opinione pubblica, è ripreso più volte nel corso del libro dai due studiosi che non a caso citano "lo spazio sproporzionato (concesso dai media, ndr) «a casi di pseudo-scienziati che propongo idee che non sono neanche discusse dalla comunità scientifica». E qui ritorniamo a un altro vecchio punto fermo delle riflessioni su greenreport: la mancanza in Italia di giornalisti specializzati (diciamo preparati) sui temi scientifici ( e ambientali) che ha come risultato, quando va bene, il dispensamento equo di spazio a voci contrastanti, anche se spesso una voce è quella più o meno riconosciuta dalla comunità scientifica mondiale e l'altra è la voce del santone di turno che spacciandosi per scienziato ottiene lo stesso spazio presentando un'idea che il sistema (perfettibile ma sufficientemente affidabile) del peer review ha già confutato.

Sarebbe riduttivo limitare al solo aspetto comunicazionale la recensione di questo libro che in modo propositivo fotografa vizi (tanti) e virtù (poche, "e non grazie, ma nonostante il sistema") della ricerca e dell'istruzione terziaria, «settori strategici nei quali l'investimento dovrebbe essere considerato indispensabile al progresso economico e culturale del paese, soprattutto nei momenti di crisi».

Tralasciando altre questioni fondamentali ma piuttosto "tecniche" relative a pensionamenti, scatti di anzianità, turnover, ingressi a ruolo, baronati, Sylos Labini e Zapperi affrontano con un interessantissimo punto di vista interno altre questioni centrali per lo sviluppo e per il futuro di un Paese, come la valutazione del merito, totalmente ignorato in Italia fino al gennaio del 2009, quando alcune modifiche al decreto Gelmini puntavano «a ridurre gli sprechi nelle università» prometteva «concorsi più trasparenti» annunciava la valorizzazione degli studenti meritevoli.

In realtà, spiegano gli autori del libro, gli «atenei virtuosi» sono quelli «con i conti a posto e non con alti standard formativi o promotori di ricerca di qualità. Di nuovo la valutazione della qualità non viene considerata nella distribuzione delle risorse e si guarda solo all'aspetto finanziario».

Quindi non solo pochi soldi alla ricerca (le cifre sono snocciolate nel capitolo "la solita litania" e presentano l'ormai famigerata 1,6%, percentuale che va alla spesa pubblica per l'istruzione universitaria calcolata in rapporto alla spesa pubblica totale, e che secondo i parametri della Strategia di Lisbona dovrebbe essere del 3%), ma anche distribuiti male, senza criteri di valutazione del merito e senza soprattutto, aggiungiamo noi, un indirizzo dato a che tipo di ricerca si ritiene sia più utile per il futuro del Paese.

Qui entra in ballo l'ipotesi ampiamente pubblicizzata di questi tempi di una riforma che privatizzi l'università italiana e quindi anche la ricerca, sulla quale i due ricercatori hanno idee molto chiare, ma che possono essere riassunte con la citazione di un esempio: «Quando Einstein formulò nel 1915 la teoria della relatività generale non si sognava certo di contribuire, a distanza di cento anni, allo sviluppo di importanti applicazioni pratiche. Questo è proprio quello che è avvenuto negli anni Novanta con la tecnologia Gps (Global positioning system) che permette tramite una rete satellitare, di calcolare la posizione di un ricevitore con un'approssimazione di un metro, tenendo conto proprio delle correzioni relativistiche. Questo semplice esempio mostra come uno dei motivi principali per cui la ricerca di base debba essere finanziata con fondi pubblici risieda proprio nella scala di tempo necessaria alla ricaduta dell'investimento. Nessun privato può permettersi di fare un investimento che da una parte è inevitabilmente ad alto rischio e dall'altra richiede generalmente una scala di tempo molto più lunga di qualsiasi intervallo temporale accettabile da un singolo individuo» (e da qualsiasi azienda privata).

Per arrivare alle considerazioni finali da parte dei due ricercatori: «solo un'inversione di rotta nella politica della pianificazione, del finanziamento e della gestione del sistema università-ricerca potrebbe rendere l'università italiana competitiva e attraente per un ricercatore straniero. Appare evidente che al competitività del nostro Paese deve basarsi sull'innovazione tecnologica [...] perché i Paesi che non sapranno mantenere una ricerca di qualità non potranno stare al passo dei sempre più rapidi cambiamenti economici dovuti allo sviluppo della conoscenza [...] la questione della crisi energetica e della crisi ambientale, ad esempio, può essere affrontata solo in un quadro in cui l'innovazione giochi un ruolo chiave».

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