"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.




mercoledì 30 giugno 2010

Università e ricerca in Italia: dalla diagnosi alle possibili terapie


Recensione di Fausto Longo su "Meno di Zero, Rivista dell'Università in Movimento"

In questi ultimi anni abbiamo assistito ad una ricca produzione di saggi sul mondo dell’Università alcuni dei quali hanno avuto un discreto successo. Molti di questi lavori, scritti da giornalisti ma anche da docenti universitari, hanno concentrato l’attenzione sui mali dell’università italiana inseguendo in tal modo quei quotidiani occupati a presentare la nostra università solo come covi di baroni e di incompetenti. Si tratta di mali esistenti che nessuno vuole negare, ma è anche vero che un’analisi di un sistema complesso come quello universitario dovrebbe richiedere riflessioni più approfondite e un maggiore equilibrio nelle diagnosi e nelle possibili soluzioni. In questa linea si pone il libro di Francesco Sylos Labini (Istituto dei sistemi complessi del CNR - Centro Enrico Fermi di Roma), e di Stefano Zapperi (fisico ricercatore al CNR di Modena), ricercatori che hanno svolto parte della loro attività all’estero oltre ad essere già autori di apprezzabili contributi su aspetti del mondo accademico. Il volume è strutturato in cinque capitoli nei quali si affrontano alcuni problemi chiave del sistema universitario e della ricerca in Italia: dal dibattito su università e ricerca, alla drammatica situazione dell’invecchiamento della classe dei professori e dei ricercatori, alla valutazione, alla qualità della ricerca negli enti pubblici sino alle diagnosi e alle possibili terapie.


Il capitolo su università e ricerca in Italia mette bene in evidenza il rapporto difficile tra scienza e opinione pubblica, un rapporto spesso mediato da giornalisti tuttologi che lasciano spazio o ai grandi vecchi, lontani dalla ricerca attiva, o a personaggi che improvvisano perché non hanno alcuna idea del necessario rigore che richiede l’attività scientifica. In questo ambito si inseriscono le politiche del governo orientate a dare risposte alla cattiva stampa piuttosto che essere il risultato di una seria riflessione sul mondo dell’università e della ricerca. Non a caso il governo negli ultimi anni ha martellato l’opinione pubblica con slogan contro i baroni e a favore del merito e della qualità salvo poi agire concretamente solo con tagli che hanno penalizzato duramente la ricerca facendole perdere ulteriore competitività con gli altri paesi europei. D’altra parte che l’università sia trattata in Italia come bene di lusso – come è sottolineato nel libro – si comprende dall’atteggiamento avuto già dal governo Prodi che non si fece scrupolo di concedere agli autotrasportatori 30 milioni di euro sottratti direttamente ai fondi di ricerca (p. 15).
Drammatico il quadro che emerge sull’invecchiamento della nostra università. È sconfortante leggere che solo il 5,7% dei docenti (ma tra questi sono inclusi anche i ricercatori che docenti non sono) ha meno di 35 anni (p. 25), un dato che ci fa essere il fanalino di coda della vecchia Europa. Un Paese che non sa investire nei giovani è un Paese che avrà sempre meno idee innovative ed è destinato ad un inevitabile declino. Le cause di questo invecchiamento sono correttamente individuate dagli autori nelle numerose
ope legis che hanno caratterizzato i governi dei decenni passati; abbiamo assistito ad una politica di corto raggio che oggi paghiamo con un incremento di ricercatori precari spesso molto bravi ma con scarse possibilità di poter effettuare stabilmente ricerca. Gli interventi legislativi più recenti, sia quello della Moratti sia il DDL Gelmini che il Governo vuole approvare quanto prima, proponendo la creazione della nuova figura del ricercatore a tempo determinato e con una falsa tenure track non farà altro che peggiorare la situazione. Qui gli autori avrebbero potuto sottolineare maggiormente la situazione drammatica che l’applicazione della norma verrebbe a creare con i ‘vecchi’ ricercatori a tempo indeterminato; forse si sarebbe potuto approfondire allo stesso modo la singolarità dei ricercatori universitari (ma gli autori lavorano entrambi nel CNR) il cui ruolo effettivo è altro rispetto a quello stabilito dalla L. 382/1980 e dalle successive modifiche. I ricercatori, per legge, dovrebbero dedicarsi alla ricerca e alla didattica integrativa o (cfr. da ultimo la L. 270/2005) dare la propria disponibilità a tenere corsi curriculari. Quella che era un’eventualità per la maggior parte delle Facoltà è divenuta una necessità. Garantire l’offerta formativa a costo zero conviene infatti agli atenei ed è per questo che il DDL Gelmini per i nuovi ricercatori a tempo determinato stabilisce la didattica come attività obbligatoria, esattamente il contrario di quanto prevedeva la vecchia legge del 1980. Considerare i ricercatori a tempo indeterminato come docenti è dunque un errore, lo stesso che ritroviamo anche nel volume di Perotti (L’università truccata) che nel calcolare il rapporto tra studenti e docenti include i ricercatori tra i docenti senza rendersi conto dell’anomalia.


Valutare la ricerca è un’impresa difficile. Gli autori prendono in considerazione diversi sistemi adottati all’estero come la
peer review, le citazioni e l’indice H, l’Impact Factor ognuno dei quali presenta notevoli limiti; occorre aggiungere (ma gli autori sono fisici) che l’uso di questi sistemi appare del tutto insufficiente a valutare la ricerca nell’ambito delle scienze umane per le quali occorre trovare sistemi di valutazioni differenti. Ma a dispetto di ogni sistema di valutazione non c’è dubbio che ci sia bisogno anche di un grande senso di responsabilità che è mancata in molti docenti negli anni passati. Quel che deve cambiare è anche, e direi soprattutto, un atteggiamento culturale prima ancora che solo e semplicemente normativo.

Cupo è poi il quadro che gli autori fanno della ricerca negli enti pubblici dove ha dominato una burocrazia asfissiante ed inutile. Impietoso risulta il confronto tra il CNR italiano e con il CNRS francese (pp. 75-76). Come non concordare con Sylos Labini e Zapperi quando sostengono che occorre dire basta al merito di essere anziani (pp. 80-83) che vige negli enti pubblici? Senza alcun dubbio le responsabilità di queste situazioni vanno rintracciate anche nell’azione di alcuni sindacati che, anche in un recente passato, hanno cercato di far valere l’anzianità sul merito contribuendo in tal modo al peggioramento di un sistema; è chiaro che la soluzione a questo e a tanti altri problemi non può essere una riforma che preveda lo smantellamento dell’università e, più in generale, della ricerca pubblica. Ma come si fa a seguire gli ideologi della privatizzazione dopo il fallimento di simili scelte operate da governi di destra e di sinistra negli ultimi venti anni in altri ambiti? C’è una ragione in più perché si debba con forza sostenere la ricerca pubblica; questa consiste nella necessità di continuare a finanziare la ricerca di base, una ricerca necessaria per l’innovazione e lo sviluppo economico, ma che allo stesso tempo ha tempi lunghi, incompatibili con gli interessi privati (pp. 105-107).

Sono questi alcuni dei tanti temi che gli autori toccano con competenza e chiarezza nel breve saggio. Solo da riflessioni come quelle portate avanti da Sylos Labini e Zapperi è possibile ripartire per una riforma coerente del sistema universitario italiano. Chi oggi critica le riforme di questi ultimi venti anni e, da ultimo, l’intervento legislativo messo a punto da Tremonti e dalla Gelmini, non è un conservatore che preferisce lo status quo, ma un cittadino che vorrebbe innovare profondamente il sistema senza affidarsi a slogan che non hanno riscontro nella realtà e soprattutto nelle leggi.


Nelle conclusioni (pp. 110-114) i due ricercatori avanzano alcune proposte utili per migliorare il mondo dell’università e della ricerca. Di queste mi interessa rimarcarne una perché può incidere profondamente anche sui comportamenti individuali: mi riferisco alla necessità di pretendere la trasparenza nel sistema, una trasparenza basata sulla pubblicità di tutti i processi di valutazione e, direi anche, di decisione

venerdì 25 giugno 2010

Se pensi che l'educazione sia costosa, prova l'ignoranza*




(* If you think that education is expensive, try ignorance --- Derek Bok)

La ricerca e l' università sono trattate da questo governo in maniera umiliante ed irresponsabile. Anche nello scorso governo Prodi non c'è stata l'attenzione a questo settore che la situazione avrebbe richiesto: c’è stata una gestione disattenta ed approssimativa accompagnata da dichiarazioni roboanti su quello che si sarebbe voluto fare seguite da pochi fatti concreti. Ci sono stati anche dei tagli, ma limitati. Ma con il governo Berlusconi i tagli sono stati enormi, tanto che alcune università non saranno in grado di pagare gli stipendi ai propri docenti nel prossimo futuro. E le riforme sono state a senso unico: rafforzare i forti, i baroni, i rettori, prendendosela con i deboli, ovvero con chi sta ancora ai margini del sistema universitario. Il mondo universitario reagisce in maniera diversa. Ci sono i fiancheggiatori della legge Gelmini, come alcuni economisti bocconiani ed editorialisti del Corriere della Sera o del Sole 24 ore (categorie che spesso, guarda caso, coincidono ), e c’è una parte del mondo della ricerca e dell’accademia che invece si oppone, con poca visibilità mediatica, grande fatica, e buoni argomenti.

Ad esempio, per reagire allo sconforto alcuni ricercatori e docenti hanno intrapreso delle iniziative che purtroppo non riescono ad uscire da una nicchia “ecologica”: mi sembra che ognuno riesca a rivolgersi solo ad una limitata cerchia di persone perlopiù nello stesso campo, anche per il proverbiale disinteresse dei grandi quotidiani a questi temi. Come in altri ambiti, vi è una grande frammentazione delle voci di dissenso che invece, se collegate e messe insieme, potrebbero formare una “massa critica” del mondo della ricerca e dell'università che si faccia sentire in maniera forte ed autorevole. Per questo, vorrei utilizzare lo spazio di questo blog per dare un po' di visibilità a queste iniziative.

In questo “appello per la ricerca di base in Italia” si parte dalla constatazione che “Gli effetti della cura al risparmio nelle Università, con il turn over quasi azzerato ormai da anni e a seguire almeno fino al 2012, stanno avendo un impatto drammatico. Un’ intera generazione di biologi, chimici, fisici, matematici ha già dovuto cercare all’ estero una opportunità di lavoro nel campo della ricerca di base." e si mette in rilievo che "L'allarme che vogliamo lanciare è perciò il seguente: se non si invertirà questa tendenza a depauperare la Ricerca di Base del capitale umano indispensabile alla sua sopravvivenza, il processo potrebbe essere irreversibile."

In "Support Italian Research and Education" dopo aver sottolineato che "La recente manovra "correttiva" non fa eccezione, indirizzando verso l'istruzione e la ricerca italiane l'ennesima (fatale?) batosta", si conclude che “Data l'attuale difficile situazione in Italia probabilmente noi scienziati dovremo soccombere, ma non lo faremo in silenzio. Nella conoscenza, nella ricerca, nell'istruzione risiede il futuro di tutti noi e faremo quanto possibile per non farcele portare via."

(In entrambi i siti è possibile firmare degli appelli.)

Infine proprio oggi (25 giugno) 100 professori hanno firmato un appello “In difesa dell’università” , in cui si chiede ai colleghi di fare autocritica per l’atteggiamento “smarrito e silenzioso” tenuto di fronte ad una “campagna devastante” che mira a cancellare l’università pubblica.


(Pubblicato sul blog de "Il Fatto quotidiano")

lunedì 21 giugno 2010

Opporsi e proporre





Da oggi uno di noi (FSL) avrà una rubrica di blogger su
Il Fatto Quotidiano. Quando rilevante, il contenuto del post sarà riportato anche su questo blog


Opporsi e proporre, in politica, sono due attività del tutto complementari. Considerazione banale, ma che non sembra inutile richiamare di questi tempi. E’ ovvio che non basta la protesta o un’opposizione intransigente ad una certa politica se non è stata elaborata una proposta alternativa. Non si capisce dunque in quale dubbio amletico siano caduti coloro che dovrebbero fare l’opposizione e le proposte politiche: per proporre un’alternativa credibile bisogna operare con efficacia e competenza su entrambi i fronti. Prendiamo come esempio quello che sta accadendo nel caso dell’università e della ricerca. Senza scendere nel dettaglio dei singoli provvedimenti, ora legati alla nuova legge Gelmini, ora contenuti nelle misure di contenimento della spesa o “anti-crisi” delle recenti leggi finanziarie, possiamo tranquillamente affermare che il presente governo sta operando un ridimensionamento storico del sistema università e ricerca, il tutto coperto da una cortina fumogena di parole come “merito, efficienza, valutazione”. Ma a ben guardare i tagli sono orizzontali e colpiscono tutti, i ricercatori bravi e quelli “fannulloni”. Ebbene di fronte a tali provvedimenti la reazione è apparsa tenue ed annebbiata. Nessun passo concreto è stato fatto per identificare i problemi reali del sistema e dunque per incidere positivamente su questi, anziché colpire in maniera indiscriminata. L’assenza (almeno manifesta) di tali riflessioni non ha consentito neanche di trasmettere al Paese la gravità della situazione, di spiegare quale ipocrisia si celi dietro a questa “falsa” battaglia in nome del merito e dell’eccellenza. Dunque queste “riforme” daranno il colpo di grazia all’università, che già si trova in una situazione molto critica, ma nessuno sembra rendersene davvero conto. E’ dunque necessario fare un’opposizione intransigente a questa legge ma nel frattempo bisogna elaborare una visione diversa, che faccia comprendere a tutti la gravità dei provvedimenti assunti dall’attuale Governo, e che riporti nella giusta prospettiva il ruolo della ricerca e dell’università nella società rispetto al progresso economico e culturale del paese, che possa creare le basi per una legge di riforma del sistema. Solo un’idea nuova, che incarni ambizioni di riforma strutturale, potrà coagulare intorno a sé le forze necessarie per contrastare la deriva attuale.

mercoledì 16 giugno 2010

Suggerimenti per Maiani


Il presidente del CNR, Luciano Maiani, ha chiesto a tutti i ricercatori dell'ente di inviare suggerimenti per la imminente stesura dello statuto e dei regolamenti del CNR. Di seguito la lettera che gli ho inviato:

Caro Presidente,

ecco alcune proposte per lo statuto e i regolamenti. In generale, un problema per il CNR è l'eccesso di burocrazia che tende a paralizzare lo svolgimento delle attività di ricerca. Non è chiaro se sia possibile risolvere questo problema con i regolamenti e lo statuto, ma si dovrebbe fare uno sforzo in questo senso.

  1. Abolire le commesse. E' una sovrastruttura inutile e fittizia che aumenta considerevolmente la burocrazia interna. Sarebbe il caso di abolire anche i dipartimenti, ma temo non sia possibile.

  2. Semplificare i concorsi: abolire il ricorso alle prove scritte, limitare le prove orali ad un seminario, rendere più semplici i bandi, decentralizzare i bandi. Studiare le possibilità di presentare candidature solo per via telematica e senza certificazioni, come avviene al CNRS in Francia. Prevedere la possibilità di fare domanda anche a candidati che non conoscono l'italiano. Per evitare ricorsi, forse la strategia più semplice sarebbe quella di eliminare i requisiti formali (titoli, certificazioni) e lasciare alla commissione la possibilità di valutare liberamente i requisiti sostanziali (pubblicazioni etc).

  3. Sveltire i concorsi: fissare dei limiti temporali per la nomina delle commissioni e non solo per il completamento delle procedure una volta nominate le commissioni. Limitare il ricorso alla riapertura dei termini, che avviene puntualmente ad ogni concorso.

  4. Riviste online: il regolamento della biblioteca non parla di riviste online, che sono invece importantissime per la ricerca scientifica. Gli abbonamenti al momento sono gestiti in maniera completamente disorganizzata, lasciati all'iniziativa delle aree e degli istituti, con spreco di risorse e inefficienza. Il regolamento della biblioteca dovrebbe prevedere una gestione centralizzata degli abbonamenti, così che ogni ricercatore del CNR, dovunque esso si trovi possa accedere (ad esempio tramite il servizio intranet già attivo al CNR) a tutte le riviste a cui il CNR è abbonato.

Cordialmente,

Stefano Zapperi,
primo ricercatore,
CNR-IENI
Milano"

giovedì 10 giugno 2010

Succede all'Università di Catania...


Da "La Sicilia" del 10.6.2010 (pag.28)

.....L’ultimo intervento è di una ricercatrice a contratto: Chiara Rizzica: «L’ateneo era a un bivio e da oggi si apre un cammino di condivisione delle scelte». Chiara di nome e di fatto, immediata e senza retorica accademica. Potrebbe essere lei la testimonial migliore del "patto". Regala al rettore, con tanto di dedica, un libro di Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi. Dal titolo emblematico: "I ricercatori non crescono sugli alberi". Recca accetta l’omaggio e ribatte: «Ma nemmeno le risorse crescono sugli alberi ». Già, perché nel giardino dell’Università, sommersi dai rami già tagliati, ci sono solo frutti andati a male. E ciò che poteva essere è già diventato qualcosa che non sarà mai....

mercoledì 9 giugno 2010

Depressive package

In risposta alla crisi, nel 2009 Obama ha varato lo "stimulus package" per cercare di rilanciare l'economia americana. Il pacchetto di misure prevedeva un finanziamento straordinario di 16 miliardi di dollari alla ricerca: il budget delle principali agenzie di finanziamento della ricerca (NSF, NIH) è stato praticamente raddoppiato. Qui in Italia invece il governo ha appena varato il "depression package" che elargisce sonore bastonate alla ricerca e ai ricercatori. Se questa manovra sarà efficace a combattere la crisi lo vedremo, possiamo però prevedere che gli effetti sulla ricerca saranno nefasti.

A parte i vari accorpamenti e la soppressione di enti di cui si è molto parlato, la manovra contiene altre misure che colpiscono la ricerca. Gli stipendi dei ricercatori vengono bloccati per quattro anni e così i rinnovi dei contratti. Si perde quindi l'unica possibilità di progressione esistente in Italia, quella per anzianità, dopo che il governo aveva annunciato più volte incentivi dati in base al merito e alla produttività. Si passa quindi a disincentivi generalizzati. Vengono dimezzate le spese di missione a partire dal 2011: questo limiterà la partecipazione ai congressi, la cooperazione internazionale e le collaborazioni. Tutte cose fondamentali per la ricerca, soprattutto per un paese provinciale come l'Italia. Vengono poi ridotte a metà anche le spese per i contratti a tempo determinato, impedendo quindi di assumere post-doc e di rinnovare contratti al personale esistente. Infine viene confermato il parziale blocco del turn-over. Tutte queste misure vengono presentate come un taglio agli sprechi della pubblica amministrazione, mettendo nello stesso calderone le spese dei ministeri con quelle degli enti di ricerca. Notiamo che la maggior parte delle spese per missioni e contratti negli enti di ricerca non gravano certo sui fondi ordinari (praticamente assorbiti da costi fissi) ma su fondi esterni (europei, industriali, etc). Non è chiaro se su questi fondi varranno i vincoli di spesa (il testo della manovra non lo precisa), ma se così fosse sarebbe paradossale. Perché mai i ricercatori dovrebbero sforzarsi di cercare fondi, scrivendo progetti, se poi questi soldi non potranno essere spesi? Perché impegnarsi nella ricerca, se la propria carriera è di fatto bloccata per legge?

lunedì 7 giugno 2010

Sul pensionamento dei docenti universitari


Nel campo dell’organizzazione dell’università e della ricerca in Italia, non vi è veramente nulla di nuovo da inventare. Si tratta casomai di studiare la situazione attuale in Italia, e di avere ben presente come in altri paesi Europei, dove il sistema è simile al nostro, problemi specifici sono stati affrontati e risolti. Dunque si tratta di saper adattare soluzioni usate in altri paesi al nostro caso specifico. Questa considerazione vale per qualsiasi problema si discuta: dal reclutamento al pensionamento, dalla valutazione al finanziamento per fare degli esempio concreti ed attuali. Inoltre bisogna aver ben presente che non esistono riforme a costo zero e che le riforme serie richiedono interventi strutturali drastici ma adottati con moderazione nel tempo, immediati ma con un orizzonte temporale di un decennio almeno.

Questi sono alcuni fatti sull’università italiana:

1. Il corpo docente (professori ordinari, associati e ricercatori) è il più anziano tra i paesi OCSE. In particolare vi è un grande quantità di ultra-sessantenni (27% con età maggiore di 60 anni, di cui il14% con età maggiore di 65 anni) ed una piccola frazione di giovani (1,8 % sotto i 30 anni e 14% tra 30 e 40). E’ bene tenere presente che entrambe queste caratteristiche non si ritrovano in nessuno dei paesi sviluppati (e non !)

2. Dal 1980 al 2005, si osserva un innalzamento dell’età media di reclutamento che cresce di circa quattro mesi ogni anno, ovvero i ricercatori assunti nel 1980 erano mediamente di otto anni più giovani rispetto a quelli assunti nel 2005 (29 anni nel 1980 e 37 nel 2005) Questa tendenza non è caratteristica dei soli fisici, per i quali esistono studi sistematici, ma del sistema universitario nella sua interezza ed è un fenomeno di lungo corso.

3. In tutti gli altri paesi europei i docenti universitari vanno in pensione a 65 anni. In Italia, si arriva oltre i 70.

4. Gli stipendi dei ricercatori italiani, nei primi anni di attività, sono più bassi del 30%-50% di quelli degli altri paesi europei.

5. Lo stipendio degli ordinari a fine carriera è dell’ordine di un salario in una università USA.

6. Il numero di “precari” («giovani» ricercatori qualificati con contratti di lavoro temporanei) nell’università e negli enti di ricerca è stimato essere una frazione rilevante che coinvolgono circa il 50% del personale a tempo indeterminato.

Dal breve elenco di cui sopra si nota che l’Italia è il paese al mondo in cui è massimo il contrasto tra giovani ed anziani nel corpo docente. Nel caso (estremo) dei fisici troviamo solo il 2% dei docenti (ricercatori) sotto i 40 anni, mentre il 48% ha più di 60 anni (ed il 30 % più di 65 anni !). Dunque per rimetterci in linea con il resto del mondo la proposta di abbassare l’età pensionabile dei docenti a 65 anni è del tutto ragionevole e necessaria. Durante lo scorso governo Prodi, il Ministro Mussi ha inserito nella Finanziaria 2008 l’abolizione progressiva della collocazione fuori ruolo riducendo di fatto l'età pensionabile da 75 a 72 anni. Questo provvedimento era stato attaccato sulla base del fatto che negli USA non esistono limiti di età per i professori universitari, che non verrebbero quindi discriminati come avviene nei paesi Europei dove l'età della pensione è generalmente fissata a 65 anni. Ma l’esempio degli USA è fuorviante per la semplice ragione che la carriera oltreoceano non è basata sull’anzianità come da noi. Per ovviare al fatto che le competenze di grandi scienziati e scuole vadano perse, bisogna pensare a dei contratti temporanei (basati su una valutazione del merito) di insegnamento e/o di ricerca per coloro che vanno in pensione. Tuttavia è salutare per l’intero sistema che con la pensione si perdano tutte le cariche accademiche e che non si possa far più parte di commissioni. In questo modo solo coloro che sono davvero interessati all’insegnamento e/o alla ricerca potranno dedicarsi a queste attività, oltretutto liberi da incombenze burocratiche. All’estero succede così, non si capisce perché in Italia non sia possibile.

I punti da considerare quando si voglia portare l’età pensionabile a 65 anni nel sistema italiano, come recentemente proposto anche dal PD, sono tre. Il primo riguarda l’anomala distribuzione del personale docente nelle università italiane che è il frutto delle leggi che hanno regolato l’università negli ultimi trenta anni. Quello che sta per succedere tra pochi anni è il pensionamento massiccio e quasi contemporaneo di più del 25% del corpo docente, quello che era stato assunto con l’ope-legis (senza valutazione e senza concorso) del 1980 (circa 12,000 docenti entro il 2015 e 30,000 entro il 2020). Poiché nulla è stato fatto in una prospettiva lungimirante, e si aspetta dunque questo pensionamento massiccio come le stagioni dell’anno, ci si troverà con il problema del reclutamento di un quarto dei docenti universitari nel giro di pochi anni. Si rischia così di creare una nuova onda demografica che si propegherà per i prossimi trent’anni, bloccando di nuovo gli accessi in maniera periodica ed a danno di alcune generazioni nate negli anni “sbagliati”. Bisogna in genere evitare grandi discontinuità nell’assunzione del personale, proprio per evitare che vi siano delle generazioni che sono più avvataggiate rispetto ad altre (come ad esempio è successo nel 1980). Il secondo punto riguarda il fatto di considerare che l’età media dell’assunzione in ruolo è fisiologicamente aumentata e dunque bisognerebbe considerare attentamente il problema del riconoscimento dell'attività pregressa dei nuovi ricercatori di 40 anni per la ricostruzione della carriera ai fini pensionistici.

Infine il terzo punto, che andrebbe valutato nel quadro complessivo del finanziamento alla ricerca ed università, riguarda la disponibilità delle risorse finanziarie, visto che abbassare l’età pensionabile non è mai un intervento a costo zero. In ogni caso la discussione dovrebbe vertere sul come fare un intervento del genere e non sul se farlo ! Molto spesso si leggono editoriali scritti da giornalisti o anche docenti universitari la cui base comune è quella di non conoscere il sistema italiano attuale, vederne un piccola parte solamente e non avere la minima idea di quello che succede all’estero (e perché !).

D’altra parte la riforma Gelmini semplicemente e beatamente non considera nessuno dei punti sopra elencati come dei problemi su quali intervenire. Ed infatti si occupa di altro: del taglio orizzontale delle risorse, della riforma della governance universitaria o di abolire il ruolo di ricercatore sostituendolo con dei contratti temporanei di 3 anni. Dunque invece di cercare di intervenire sui problemi dell’università va esattamente nella direzione di aggravare la situazione: il problema della pensione non si pone proprio come non si considera il grande numero di precari nel sistema universitario e della ricerca ed il fatto che il numero dei docenti a contratto, su cui si basano tanti corsi universitari, è ormai dell’ordine dei docenti permanenti. A questo si aggiungono le recenti misure della Finanziaria che prevedono il blocco delle assunzioni nell’università per i prossimi due anni.

In questa situazione l’unica possibilità per le università rimane alzare le tasse universitarie il più possibile, senza dare in cambio nulla agli studenti, e subappaltare tanti corsi ai docenti a contratto, che tanto non costano nulla o quasi. Ma non c’è da sorprendersi del fatto che questo Governo vuole riformare l’università nel senso di smantellarla completamente: vi sono state ampie dimostrazioni che questa sia la linea. Sorprende, nel panorama politico, accademico e culturale l’assenza di una voce autorevole, competente ed efficace, che riesca in qualche modo a contrastare l’affossamento sistematico dell’università e della ricerca in Italia, e che riesca anche a proporre una visione di prospettiva del ruolo di queste nella società del futuro. Questo è davvero sconfortante.