"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.




lunedì 9 agosto 2010

2010 odissea nel Cnr


Come ho avuto già modo di notare nel caso della recente vicenda dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, quando gli scienziati non sanno più dove sbattere la testa, scrivono un appello al Presidente della Repubblica. Il quale a sua volta non può fare molto se non rispondere dicendo “le scelte per la politica del settore..sono di competenza del Governo…Pur comprendendo le ragioni che muovono il Vostro Appello non posso che inviarlo al Ministro con l’invito a considerare attentamente le questioni…”. Nel silenzio e nel disinteresse generale per le sorti della ricerca si prova almeno ad avere una qualche visibilità per portare un problema, importante per il settore, alla conoscenza dell’opinione pubblica. La quale se fosse un po’ più attenta alle sorti dell’università e della ricerca dovrebbe considerare la vicenda. Per fare un esempio, se in Francia scienziati del CNRS, ente di ricerca di grande prestigio, facessero un appello del genere ci sarebbe una certa discussione pubblica della vicenda. Ma in questo paese, oltre ad un opinione pubblica che considera la ricerca come il passatempo di qualche stravagante personaggio o peggio come un campo corrotto da piccoli poteri baronali, ci sono vicende ben più importanti che vengono strombazzate da tutte le parti e creano un frastuono che lascia poco tempo all’approfondimento.

Dunque per tornare ai fatti, alcuni ricercatori del Consiglio Nazionale delle Ricerche, il maggior ente per la ricerca di base in Italia, sono in allarme per una questione tecnica ma sostanziale. Il punto è semplice. Si sta procedendo alla realizzazione di statuti autonomi degli enti di ricerca ed a questo scopo sono stati nominati degli esperti dal Ministero dell’Università. Quello che si contesta, come rilevato anche da
una denuncia della FLC-CGIL e da interrogazione parlamenta dell’On. Ghizzoni (PD) , è che “la bozza di statuto del CNR contrasta con i principi di indipendenza e libera attività di ricerca negli enti pubblici” in quanto “marginalizza il ruolo della comunità scientifica nei processi decisionali dell’ente”. Ad esempio leggendo la “Missione” del CNRS troviamo che questa riguarda “lo sviluppo della ricerca capace di dare un contributo alla conoscenza” mentre il CNR ha come missione di “collaborare con università e gli altri enti di ricerca per la promozione delle conoscenze scientifiche“. Inoltre, punto più rilevante, non si capisce perché la comunità scientifica sia di fatto marginalizzata nella gestione del principale ente di ricerca italiano.

Partendo dal presupposto che il presidente del CNR dovesse anche essere uno scienziato di alto profilo, durante il Governo Prodi il ministro Mussi si affidò ad un comitato di scienziati italiani e stranieri che gli proposero una rosa di tre nomi. I criteri per la scelta del presidente erano quelli dell’assoluta eccellenza scientifica, attestata internazionalmente, e della provata capacità manageriale nell’ambito di enti di ricerca italiani e internazionali. Da questa lista il ministro scelse il fisico Luciano Maiani, già presidente dell’INFN e del CERN (European Organization for Nuclear Research), che dal 2008 dirige il CNR. Dunque, questo metodo è sicuramente da imitare se si vuole sottrarre alla politica la gestione degli enti di ricerca, ma ovviamente non è detto che ciò basti. Il presidente non decide da solo ma deve deliberare assieme al consiglio di amministrazione, che per il CNR è in gran parte di nomina politica.
In direzione opposta si sta muovendo il Ministro Gelmini che ha recentemente dichiarato: “Vogliamo agire sulla governance degli enti. Uno scienziato non è detto che sia preparato come manager. Quindi guardiamo ad un doppia direzione: una scientifica ed una manageriale”. La retorica sulla supposta efficienza del modello privato ha già portato ad introdurre anche negli enti pubblici di ricerca, sulla falsariga della RAI, consigli di amministrazione di nomina prevalentemente politica.

Invece di avere dei modelli ispirati dal solito team di esperti che, come notato in
uno spassoso pamphlet del Prof. Guido Martinotti , al grido “siamo noi la California siamo noi la libertà” continua a proporre “riforme” insensate, perché non guardare a quello che funziona oggi in Italia ? Ad esempio l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare è diretto da scienziati di prestigio che a rotazione si sono dati il cambio, ed è un esempio virtuoso di ente di ricerca in Italia. L’organo decisionale di questo ente è il consiglio direttivo in cui vi è ampia rappresentanza di ricercatori dell’ente stesso ed una piccola parte di nomina politica. Quello dell’INFN è dunque un modello da cui trarre insegnamento per un’eventuale riforma della governance In ogni caso la gestione dei finanziamenti della ricerca deve essere lasciata ad una valutazione interna ed indipendente della comunità scientifica e non deve essere un (altro) campo di ingerenza della politica; inoltre ci sarebbe bisogno di una discussione pubblica (almeno a livello di comunità scientifica) su questo tipo di interventi.

giovedì 5 agosto 2010

La riforma che non piace


Intervista a FSL su Oggiscienza a cura di Valentina Murelli



POLITICA – Passato in Senato il ddl Gelmini sulla riforma dell’Università. All’orizzonte una rivoluzione per i ricercatori, e un nuovo sistema di governance. Ma l’insoddisfazione resta alta.

Il primo step è concluso: il 29 luglio scorso il Senato ha approvato la riforma dell’Università targata Mariastella Gelmini. Ora la strada parlamentare porta alla Camera, dove il ddl verrà discusso in autunno, con la prospettiva di un’approvazione che dovrebbe arrivare entro la fine dell’anno.
E se a Montecitorio il testo della legge non verrà stravolto sarà uno tsunami, in particolare per quanto riguarda due aspetti fondamentali dell’organizzazione universitaria: il reclutamento di ricercatori e professori e la governance degli atenei .

Destinata a saltare la figura del ricercatore a tempo indeterminato come l’abbiamo conosciuta finora; sarà infatti sostituita da quella del ricercatore a tempo determinato (contratto da 3 anni oppure da 3 anni più 2, non rinnovabili). Terminato il contratto, se il ricercatore sarà ritenuto valido dal suo ateneo – e avrà ottenuto nel frattempo l’apposita abilitazione – verrà confermato direttamente come professore associato. Altrimenti grazie e arrivederci. Il modello di riferimento è quello della cosiddetta tenure track americana: io ateneo o centro di ricerca ti assumo a tempo determinato e se ti riveli in gamba alla fine ti stabilizzo con una posizione permanente. Sulla carta non sembra neanche così male, e del resto spesso si addita quello americano come un sistema di ricerca che funziona decisamente meglio del nostro. “Peccato che negli Stati Uniti la tenure track preveda a priori che ci sia anche un budget a disposizione per la stabilizzazione. Esattamente quello che mancherebbe nel nostro paese”, commenta con amarezza il fisico Francesco Sylos Labini, ricercatore presso l’Istituto dei sistemi complessi del Cnr e il Centro Enrico Fermi di Roma, autore insieme al collega Stefano Zapperi, del Cnr di Modena del bel libro I ricercatori non crescono sugli alberi (qui il blog).

Come dire: la tenure track sarà pure una cosa bellissima, ma funziona se c’è un sistema strutturalmente in grado di garantire il suo sbocco naturale verso la posizione permanente. Se questo sistema non c’è – in altre parole se mancano i fondi, come di sicuro succederà nel nostro Paese – che ne sarà dei ricercatori a tempo determinato una volta finito il contratto?
E tutto questo senza considerare l’altro corno del problema, e cioè il merito. Il punto è che stabilire il merito – condizione essenziale per premiare i meritevoli e allontanare o disincentivare chi non lo è – non è affatto un’operazione semplice. Ci vogliono strumenti, indagini, elaborazioni, e naturalmente soldi per farlo. “Dell’Anvur, l’agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, tanto citata nel testo della riforma, si parla ormai da anni”, afferma Sylos Labini. “Io, però, di concreto non ho visto ancora niente”.

Di fronte a queste considerazioni, la seria preoccupazione è che ci si stia apprestando a formare, nei prossimi anni, un esercito di giovani ricercatori che non avranno alcuna prospettiva concreta di carriera: un quadro già abbastanza fosco, ma non è tutto. Perché non si tratta “solo” di giovani che non riescono ad arrivare a posizioni a cui dovrebbero poter ambire, ma anche di assoluta mancanza di turnover. “Nei prossimi 10 anni andrà in pensione circa il 50% del corpo docente, ma in base ai fondi stanziati per la riforma si potrà coprire solo il 10% dei posti lasciati liberi”, afferma Gianluca Introzzi, ricercatore dell’Infn e dell’Università di Pavia e membro del Coordinamento nazionale ricercatori universitari. Quindi: da un lato giovani ricercatori senza prospettive sicure, dall’altro un’università con un personale docente ridotto al lumicino. E in mezzo i “vecchi” ricercatori, quelli tradizionali a tempo indeterminato, che rischiano di finire in un limbo, di essere scavalcati nelle scarsissime occasioni di avanzamento di carriera dai ricercatori tenure track.

“È un dramma”, dice Introzzi. Per questo, molti ricercatori hanno confermato, per l’inizio del nuovo anno accademico, l’indisponibilità a incarichi didattici non previsti dalla legge. Come abbiamo già raccontato, i ricercatori spesso si assumono l’onere di corsi che, di fatto, non spetterebbero a loro. “Una situazione che andava sanata, mentre la riforma non fa che peggiorare le cose”. Si stima che siano tra il 50% e il 60% dei quasi 25.000 totali i ricercatori che hanno dichiarato indisponibilità ad iniziare l’attività didattica. Se tutti terranno fede all’impegno preso, sarà di fatto la paralisi dell’università.

“E invece di preoccuparsi di questi problemi, ci si occupa di governance”, commenta Sylos Labini. Pronto a cambiare, infatti, anche tutto il sistema organizzativo dell’Università: più poteri al rettore, netta distinzione tra le funzioni del senato accademico e del consiglio d’amministrazione e istituzione della nuova figura del direttore generale, a sostituzione di quella del direttore amministrativo. Al direttore generale e al Cda, che sarà costituito dal rettore, da una rappresentanza degli studenti, e da “personalità italiane o straniere in possesso di comprovata competenza in campo gestionale ovvero di un’esperienza professionale di alto livello”, non appartenenti all’ateneo, spetteranno in particolare le responsabilità del bilancio e della programmazione finanziaria. “Il tentativo è di trasformare le università come se si trattasse di Asl o di tante piccole Rai, in cui piazzare gli amici: una riorganizzazione di cui francamente non si sentiva alcun bisogno”, dice Sylos Labini. Che precisa: “A queste condizioni, era meglio lasciare tutto come prima”. D’accordo anche Introzzi per il quale, di fatto, la riforma è una manovra da ancient regime. “Gli ordinari saranno sempre meno, ma avranno sempre più poteri e responsabilità, mentre associati e ricercatori vivranno solo nell’ombra”.

Per i ricercatori, dunque, la riforma è bocciata su tutta la linea. Ma che cosa ne pensa chi sta più in alto? In prima battuta, il giudizio della Crui, Conferenza dei rettori, sembra sicuramente più positivo. “L’impianto generale della riforma mi sembra buono”, afferma il presidente Enrico Decleva, rettore dell’Università statale di Milano. “Si affrontano in modo coerente varie criticità della vita universitaria italiana, in particolare riguardo all’annoso problema del reclutamento dei professori associati e ordinari e alla governance”. Qualche battuta in più, però, ed emergono anche le critiche. Sulla composizione del senato accademico, per esempio: “Sono previsti troppi vincoli, vorremmo più autonomia”, dice Decleva. Che sottolinea anche l’urgenza di trovare una soluzione per i ricercatori tradizionali: “Bisogna prevedere un piano straordinario di reclutamento, che ne garantisca il passaggio ad associati”. In fin dei conti, anche per i rettori il vero nodo critico è quello della sostenibilità economica della riforma. “Se ci sono i soldi per attuarla ha senso, altrimenti no. Per esempio: a noi piace anche l’idea di un consiglio d’amministrazione che si apra a cariche esterne, ma che senso ha mettere in piedi tutto questo solo per gestire una decadenza?”.

mercoledì 4 agosto 2010

Quanto valgono la ricerca e l’università italiana ?


Negli ultimi anni c’è stata una sistematica denigrazione dell’università e della ricerca in Italia. L’argomento è che entrambe sono mediocri o pessime. Alcuni, con un certo spregio del pericolo, hanno anche sostenuto che questa mediocrità è anche più grave in quanto “la spesa italiana per studente universitario è la più alta del mondo dopo USA, Svizzera e Svezia” (R. Perotti, “L’università truccata” Einaudi 2008). In genere queste critiche vengono da economisti completamente appiattiti al mainstream americano, che, come in tante altre occasioni, hanno una visione del problema molto parziale e mediata da preconcetti ideologici.

Il problema è complesso e, da un punto di vista statistico, la prima questione che bisogna porsi riguarda il concetto di media: ovvero quale sia la
media della “qualità” scientifica e se questa sia davvero rappresentativa. La media è un concetto che ha senso statistico solo quando le fluttuazioni sono ragionevolmente limitate. Quando invece ci sono enormi differenze tra i più “bravi” ed i meno “bravi” caratterizzare la distribuzione della qualità con il valore medio non ha un gran senso. Bisogna dunque distinguere non solo tra le diverse discipline, ma anche all’interno di un singolo campo. Solo attraverso un’analisi sistematica ed analitica si potranno identificare le parti sane del sistema da valorizzare e quelle improduttive da “curare” in qualche modo.

Un osservatore esterno, considerando principalmente le
discipline scientifiche, nota subito il Paradosso Italiano: “Le statistiche sulla ricerca scientifica in Italia rivelano una forte contraddizione. Mentre le risorse investite dal paese stanno dietro quelle delle altri principali paesi, la produzione in termini di pubblicazioni scientifiche non è solo una delle più prolifiche del mondo, ma anche grandemente riconosciuta in diverse discipline”. La produttività pro capite di un ricercatore italiano è superiore a quella di molti altri paesi (vedi figura a fianco, fonte) e in una classifica internazionale gli italiani si posizionano globablmente all’undicesimo posto per citazioni sui 20 paesi che investono più in ricerca.

Studi sulla
performance dei paesi in base ad indicatori statistici internazionalmente riconosciuti (ad esempio l’indice di Hirsch) nelle diverse discipline mostrano che in alcuni campi (informatica, fisica, matematica, neuro scienze) l’Italia si classifica molto bene ed in altri (economia, biologia vegetale) va peggio. Questi studi vanno presi con le “molle”, come anche la significatività degli indici bibliometrici per la valutazione della qualità scientifica, ma comunque qualche indicazione la danno. A mio parere gli indicatori bibliometrici sono utili per identificare gli estremi di una distribuzione, ad esempio i ricercatori molto bravi e quelli molto scarsi, ma un’analisi della qualità scientifica deve essere sempre fatta entrando nel merito tecnico da persone competenti che si assumano la responsabilità delle scelte.

Infine un commento sulle classifiche internazionali delle università in cui le accademie italiane
non fanno mai una buona figura. Queste classifiche sono basate su una serie di indicatori come ad esempio il rapporto docenti/studenti o il numero di studenti o docenti stranieri. Un’analisi seria, come quella fatta da Regini e collaboratori nel libro “Malata e denigrata. L’università italiana a confronto con l’Europa (Donzelli, 2009), invece di sbandierare che l’università XY sta al 156esimo posto ed è scesa di quattro posizioni rispetto all’anno scorso, dovrebbe considerare singolarmente ogni indicatore e cercare di identificare il problema. Quando la discussione sull’università e sulla ricerca smetterà di essere basata su facili ed insulsi slogan, si potrà iniziare a ragionare su come cercare di rimettere in sesto un sistema disastrato.