"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.




martedì 28 settembre 2010

venerdì 24 settembre 2010

L’università che si oppone


Parecchio tempo fa, quando ero studente, avevo partecipato a qualche assemblea della “Pantera“, un movimento studentesco che si opponeva alla riforma dell’università proposta dell’allora ministroRuberti. Quel progetto di riforma prevedeva una trasformazione in senso “privatistico” delle Università italiane (neanche lontanamente comparabile alla riforma Gelmini, Ruberti l’università la conosceva bene). La conoscenza della riforma da parte degli studenti era piuttosto confusa. Quando la discussione, tra i fisici, intraprese lo scivoloso versante su quali siano le ricerche pure e quelle applicate a fini militari lasciai stare e mi concentrai sulla tesi di laurea. L’altro giorno all’assemblea organizzata dalla Rete29 aprile, a cui hanno aderito quasi 15,000 ricercatori universitari (ovvero il 50% del totale), all’università la Sapienza di Roma, la discussione era piuttosto diversa e molto più interessante. C’era gente informata e preoccupata che, senza fare rivendicazioni legate ad interessi di “categoria“, sta portando all’attenzione generale i diversi problemi dell’università oltre che le specifiche situazioni che riguardano loro stessi e le loro prospettive di carriera. La loro posizione non è isolata ed anzi mi sembra che stia rompendo il muro dell’indifferenza all’interno dell’accademia.

Per capire in quale contesto questo accade, vediamo cosa hanno detto, pochi giorni fa, tra gli altri, il Senato Accademico dell’Università la Sapienza di Roma:

Abbiamo fatto tutto il possibile: abbiamo ridotto i Dipartimenti del 40%, le Facoltà del 60%, riordinato la governance, decentrando tutti i poteri gestionali di ricerca e didattica ai Dipartimenti con organi centrali e Facoltà che hanno funzione di valutazione premiale delle attività. La responsabilità è ora del Governo e del Parlamento che debbono dare risposte concrete sui finanziamenti ormai drammaticamente insufficienti (l’università italiana è ultima in Europa) e sullo stato giuridico che i ricercatori attendono da 30 anni. La Sapienza ha operato per razionalizzare, risparmia e riprogettare in funzione della qualità. Se dalla politica non ci saranno risposte, soprattutto finanziare, avremo una didattica da terzo mondo e una ricerca in dissoluzione. In tali condizioni non saremo in grado di iniziare l’anno accademico 2010-2011”.

di Palermo:

Il Senato Accademico dell’Università di Palermo, prendendo atto del persistente stato di agitazione di numerosi professori e ricercatori dell’Ateneo, formalmente esplicitato attraverso la dichiarazione di indisponibilità ad accettare attività formative aggiuntive rispetto al proprio stato giuridico, constata, alla vigilia dell’apertura dell’A.A. 2010/11, la mancanza di copertura di significativa parte dell’offerta formativa, già approvata dagli organismi accademici a ciò deputati. Lo stato di agitazione della docenza e dei ricercatori universitari é conseguenza del dissenso rispetto alla ratio del DdL 1905 (già approvato dal Senato della Repubblica il 29 Luglio 2010) e più in generale rispetto alle politiche economico-finanziarie di dis-investimento e di decurtazione delle risorse umane dell’Università, quali vengono perseguite da anni e il cui progressivo, programmato inasprimento insidia l’esistenza stessa del‘istituzione“.

Dunque a quanto pare i ricercatori non sono isolati all’interno del mondo universitario e molti (se non tutti) si rendono conto benissimo che la ricerca è in via di dissoluzione e la didattica in alcuni casi è già da terzo mondo e soprattutto che la Riforma Gelmini può solo aggravare le cose. Il problema riguarda come si reagisce ad una tale constatazione. Con la ricerca del proprio interesse, con l’indifferenza o con una opposizione dura e consapevole. C’è infatti una parte del mondo accademico che si oppone. Basta leggere il documento che un consistente gruppo di docenti universitari ha redatto poco tempo fa dal titolo In difesa dell’Università . Questo contiene una lucida analisi dell’università alla luce della riforma Gelmini e degli accadimenti degli ultimi anni ed inizia con questa giusta considerazione:

Il corpo accademico continua ad essere smarrito e silenzioso. È come un pugile frastornato: non reagisce ai colpi che vengono inferti all’Università – e dunque innanzi tutto a chi in essa vive e la fa vivere – da una campagna carica di disprezzo e di irrisione e da una serie di atti governativi devastanti (ampiamente condivisi, nella sostanza ispiratrice, anche dall’opposizione). Continua a subirli in silenzio, rannicchiato su se stesso. Non ha mai trovato le forme collettive di una reazione.” Per concludere “Alla luce a) di queste gravissime preoccupazioni che coinvolgono non solo i tagli previsti ma anche le indicazioni quanto mai caotiche relative al nuovo assetto dei Dipartimenti e delle Facoltà, b) delle facilmente prevedibili difficoltà di carriera in cui verranno a trovarsi gli attuali ricercatori, e c) del prevedibile perpetuarsi sine die del precariato per chi si avvia alla carriera accademica, si propone ai Colleghi di riflettere su iniziative di protesta quali:-Sciopero di tutto il personale docente dell’Università- Sospensione delle sessioni di esami ivi comprese quelle di laurea- Rinvio dell’inizio delle lezioni“.

Gli attuali ricercatori hanno spesso superato un sistema selettivo più impegnativo di quello delle precedenti generazioni. Senza considerare coloro che sono entrati nell’università attraverso ope-legis o concorsi riservati, che dunque hanno fatto una fatica minima, i ricercatori attuali hanno il dottorato, hanno avuto esperienze all’estero, hanno fatto concorsi non facilissimi di ingresso (a differenza del sedicente quasi-quasi nobel ministro Brunetta) . Basti pensare che oggi per un posto di ricercatore ci sono decine e decine (se non centinaia) di candidati. Non sono più “giovani” ma persone di mezza età: se nel 1980 l’età media dei ricercatori era di 31 anni, quella degli associati di 40 anni e quella degli ordinari di 46 anni, nel 2006 questi valori sono passati rispettivamente a 44 anni, 53 anni e 61 anni. L’età media di ciascuna fascia è cresciuta di sei mesi all’anno, ovvero, in media, tra il 1980 ed il 2005, di quasi tredici anni. Sono dunque delle persone adulte e consapevoli che, per storia personale, possono cogliere meglio le problematiche dell’attuale sistema universitario di reclutamento dei docenti più anziani che hanno avuto una carriera completamente diversa ed una vita estremamente più semplice.

Se i Rettori sono preoccupati soprattutto di non avere i soldi per pagare gli stipendi, i ricercatori hanno alzato il tiro. Non stanno chiedendo una ope-legis, come fatto dai loro colleghi di trent’anni fa. Nel loro documento finale dichiarano “che si avvii una discussione pubblica sulla funzione e il ruolo dell’università e della ricerca nel nostro Paese insieme alla scuola e gli enti pubblici di ricerca, a partire dalle tante proposte che questi soggetti possono condividere: dall’autonomia di scelta degli studenti e dall’autonomia e indipendenza della ricerca“. Bisogna partire da qui e c’è bisogno di parlare con tutti coloro che, rendendosi conto della gravità della situazione, sono pronti ad opporsi seriamente oltre che firmare appelli.

domenica 12 settembre 2010

UNA RIFORMA PER VECCHI




Torna in aula il ddl Gelmini che si propone di ristrutturare università e ricerca. «Completerà la distruzione di un sistema, poli di eccellenza compresi», denuncia il fisico Francesco Sylos Labini


(Intervista su Left-Avvenimenti del 10.9.2010, a cura di Federico Tulli)


"Si tratta di un evento epocale che rivoluziona i nostri atenei. L’università sarà più meritocratica, trasparente, competitiva e internazionale. Il disegno di legge di riforma dell’universita` segna la fine delle vecchie logiche corporative: sarà premiato solo chi se lo merita". Era il 29 luglio scorso quando il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, salutava cosi` il via libera del Senato al ddl che porta il suo nome. Crisi politica permettendo, entro pochi giorni il testo sara` sottoposto al vaglio della Camera. Secondo il ministro, la sua approvazione "scostituisce la base per il rilancio del sistema universitario italiano e finalmente si potra` competere con le grandi realta` internazionali". A giudicare dalle vibranti proteste di chi in primis dovrebbe beneficiare del riassetto esaltato dal ministro (vale a dire studenti e giovani ricercatori), non si direbbe. L’ultima manifestazione (iniziata il 3 settembre) a fine mese potrebbe bloccare

l’avvio dell’anno accademico al dipartimento di Fisica della Sapienza di Roma. Con il taglio indiscriminato di risorse, economiche e umane, stabilito dal ddl, i ricercatori si troverebbero infatti a dover insegnare in aule composte da oltre 100 studenti, contro i 75 previsti dalle direttive ministeriali. Per questo

motivo hanno deciso di non fare lezione se il ddl non sara` cambiato. Una “situazione” didattica che, penalizzando contemporaneamente gli allievi e la qualita` dell’insegnamento, fa pensare a tutto tranne che "all’universita` piu` competitiva e internazionale" annunciata dal ministro. E questa e` solo una delle tante discrepanze tra gli annunci della Gelmini e la realta` dell’universita` che sta per nascere. Con Francesco Sylos Labini, fisico ricercatore all’Istituto dei sistemi complessi del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma e autore insieme con il collega Stefano Zapperi del libro I ricercatori non crescono sugli alberi, facciamo il punto sul provvedimento targato Gelmini.


Proprio mentre il ddl Gelmini entrava in Senato, in Francia il governo di Sarkozy investiva lo 0,5 per cento del Pil per potenziare i settori di base e rilanciare il Paese. Stanziando 11 miliardi di euro per l’università e 8 per la ricerca, Parigi ha provocato ricadute positive nell’immediato e posto le condizioni per cruciali

modifiche strutturali dell’intero sistema del “sapere”. Possiamo dire la stessa cosa della riforma italiana?


Certamente no. Quelle del ministro sono solo parole. Il suo ddl completa l’opera di distruzione dell’universita` pubblica iniziata con il dl 133 “Gelmini-Tremonti”

del 2008. Tutti siamo d’accordo che occorre fare delle riforme strutturali, purche siano serie e non delle prese in giro. Questa e` una presa in giro.


Perché?


Per tanti motivi. Anzitutto perche il taglio “orizzontale” del 20 per cento al finanziamento ordinario delle universita` e` una mannaia che si abbatte in maniera indiscriminata su tutto e su tutti.


Chi ne pagherà il prezzo?


Inevitabilmente gli anelli deboli della catena: gli studenti, chi sta per entrare nel mondo della ricerca e i giovani ricercatori. E` una riforma del tutto insensata

fatta da vecchi per vecchi. Del resto piace ai professori ordinari, cioe` a chi ha gia` potere. Ed e` sostenuta dalla conferenza dei rettori, perche li trasforma in dei piccoli satrapi universitari.


Quegli anelli deboli, ovunque sono considerati punti di forza. È noto che gran parte delle scoperte si fanno prima dei 40 anni.


L’investimento va fatto su chi puo` trainare lo sviluppo in maniera piu` efficace. Accade in tutta Europa. Non parliamo degli Stati Uniti. Una riforma seria metterebbe al centro del progetto il reclutamento dei ricercatori e i fondi per consentire loro di programmare l’attivita`. Invece col ddl Gelmini e` un punto trattato in maniera insensata.


Ci spieghi meglio.


In pratica si vuole abolire il ruolo del ricercatore, che e` una delle poche “valvole di sfogo” per l’assunzione di chi esce dall’universita`, e sostituirlo

con la tenure track americana. Questa, negli Usa, prevede l’assunzione a tempo determinato di 3 o 4 anni. Al termine, chi ha prodotto dei risultati viene nominato

professore. Mentre il posto di chi non ha avuto un rendimento soddisfacente viene ribandito.


Sembra un buon metodo.


Purtroppo la versione italiana della tenure track non ha nulla a che vedere con quella americana. L’uso delle parole a sproposito testimonia una certa confusione se non malafede. Da noi e` previsto un contratto temporaneo di tre anni e stop. Si e` fuori dall’universita`, poco importa dei risultati prodotti.


La questione delle assunzioni è legata a doppio filo con i pensionamenti. Il ddl prevede un limite di età di 70 anni per i professori ordinari. Cosa ne pensa?


Come proposta in se e` del tutto condivisibile. Ma anche qui e` una questione di metodo. Il corpo docente italiano e` il piu` anziano al mondo. Gli over 60 sono il 30 per cento. Con Zapperi proponiamo da tempo di abbassare l’eta` del pensionamento a 65 anni. Un’idea che e` stata rilanciata di recente anche dal Pd.

Del resto non ci inventiamo nulla: ovunque si va in pensione a 65-67 anni. Ma un intervento cosi` delicato va contestualizzato. Un semplice emendamento al testo Gelmini creerebbe danni maggiori di quelli che gia` fa.


Come mai?


Perché sono tanti i problemi che vengono insieme all’eta` pensionabile. Nei prossimi 10 anni, tra il 40 e il 50 per cento del corpo docente attuale andra` in pensione. Diminuendo improvvisamente, l’eta` pensionabile aumenterebbe al 60-70 per cento. Se poi pensiamo che nel ddl c’e` il blocco del turn over al 20 per cento, ecco che un intervento estemporaneo svuoterebbe l’universita`. Tra 10 anni non ci sara` piu` nessuno a insegnare e a fare ricerca. Un altro esempio: oggi si viene assunti in ruolo mediamente intorno ai 40 anni. Dopo 25 anni di lavoro che cosa rimane in tasca? E poi c’e` il costo del pensionamento in blocco di 15mila professori: circa 500 milioni di euro. Insomma, la norma e` giusta ma va inserita in una riforma basata sullo svecchiamento del sistema. Una misura da programmare con criterio.


Per rilanciare l’università italiana occorrono tempo e denaro.


Non solo. Per sviluppare un sistema di qualita` vanno create le condizioni “sociali”. Invece da anni c’e` una campagna mediatica che propone una visione distorta

della ricerca e caricaturale dell’universita`. Questa sarebbe composta solo da baroni mafiosi e da mediocri nullafacenti. Ma il successo all’estero di chi si e` formato in Italia dimostra la presenza di numerosi centri d’eccellenza. Questa percezione e` stata persa dall’opinione pubblica. Eppure la prima a essere danneggiata dal taglio delle risorse statali e` proprio la comunita`. Solo lo Stato puo` finanziare i tempi lunghi che una ricerca di qualita` richiede. Ma e` solo questa che puo` avere delle ricadute positive sulla societa`.


venerdì 10 settembre 2010

Valutare la ricerca




La valutazione della ricerca è necessaria ma anche molto delicata. E’ necessaria perché senza una valutazione dei risultati dell’attività di ricerca si cade nel regno dell’arbitrio totale mentre si vorrebbero ripartire le risorse ed i posti in base alla qualità in modo che “il merito sia premiato”. Ma una valutazione della qualità è anche molto delicata perché, se fatta in maniera superficiale o sbagliata, può dare origine a delle dinamiche perverse.

La domanda se sia possibile formulare un giudizio obiettivo sulla qualità della ricerca svolta da un ricercatore non ha risposte necessariamente semplici perché non esiste un algoritmo matematicoche permetta di classificare in ordine di importanza i risultati scientifici. Le scienze “dure”, come ad esempio la fisica, hanno storicamente svolto un ruolo d’avanguardia. Per valutare la produzione scientifica di un ricercatore sono stati introdotti degli indici bibliometrici sempre più raffinati. Alcuni sono significativi, altri meno ed altri danno delle indicazioni del tutto fuorvianti. Vediamo qualche esempio.

Un primo indicatore bibliometrico ovvio riguarda il mero computo del numero di pubblicazioni. Nelle scienze dure per pubblicazioni s’intende un articolo su una rivista scientifica internazionale in cui sia effettuato il peer review (revisione da parte di pari). Ma un semplice conteggio del numero di pubblicazioni è del tutto incapace di dare un’idea della qualità delle stesse. Per questo si può conteggiare il numero di citazioni ricevute per ogni articolo. Questo fornisce un’idea non della vera e propria qualità scientifica, quanto piuttosto dell’impatto, o meglio della popolarità, che una pubblicazione ha avuto. Un indicatore sintetico, recentemente introdotto, che permette di conteggiare non solo il numero di pubblicazioni ma anche il numero di citazioni, è l’indice H, dal nome del suo inventore, Jorge E. Hirsch. Uno scienziato possiede un indice H se i suoi H articoli più citati hanno almeno H citazioni ciascuno ed i rimanenti articoli hanno ognuno meno di H citazioni. L’indice H permette di pesare l’impatto della produzione complessiva di un ricercatore in maniera più efficace del mero computo delle citazioni o delle pubblicazioni. Come per le citazioni, un alto indice H non è necessariamente un marchio di qualità, ma sicuramente un fattore di prestigioall’interno della comunità scientifica internazionale.

Negli ultimi anni l’impact factor si è affermato sempre di più come il metodo principale per stabilire il valore delle riviste scientifiche e, per estensione, alcuni usano questo indicatore per quantificare la qualità delle singole pubblicazioni. L’impact factor di una rivista è ottenuto contando le citazioni ottenute in un anno dagli articoli pubblicati nei due anni precedenti. In questo modo si può stimare quante siano, in media, le citazioni ricevute da un articolo di una data rivista. Riviste con articoli molto citati avranno un alto impact factor che quindi potrebbe fornire una stima della qualità della rivista. Questa affermazione in realtà è spesso falsa e l’uso dell’impact factor per valutare la ricerca è stato criticato aspramente. L’impact factor non ha alcuna rilevanza quando è applicato ad un singolo articolo in quanto esiste un’enorme variabilità nella distribuzione delle citazioni e non vi è praticamente alcuna correlazione tra il numero di citazioni di un articolo preso a caso e l’impact factor della rivista che lo ospita.

Dalla distribuzione di un indice bibliometrico in una data comunità si possono efficacemente identificare gli estremi: chi è molto bravo e chi è poco produttivo. Ad esempio un’analisi dell’indice H dei vincitori di premio Nobel mostra che questo è immancabilmente alto. D’altro canto è anche semplice identificare coloro che hanno una produzione scientifica molto scarsa e che si trovano dunque all’altro estremo della distribuzione. Il problema cruciale riguarda la classificazione di coloro che si trovano lontano da entrambi gli estremi citati sopra, e che rappresentano generalmente lamaggior parte dei casi. Pensare di fare una selezione del personale in base al valore dell’indice H è, nel migliore dei casi, molto ingenuo ed ha anche degli effetti molto pericolosi. Una grande attenzione a questi indici bibliometrici può spingere il ricercatore ad impostare la sua attività di ricerca con lo scopo di massimizzare il proprio indice H, non sulla base della qualità ed all’originalità dei propri risultati scientifici, quanto piuttosto appiattendosi alla ricerca dominante nel proprio campo (il cosiddetto mainstream). Infatti, ricercando il consenso sociale nell’interno della propria comunità scientifica si riesce ad essere citati senza problemi. Al contrario, una ricerca originale, controcorrente e controversa può portare a conseguire bassi indici bibliometrici, almeno nel corto-medio periodo. D’altra parte, essendo questo il tempo scala in cui si gioca la carriera scientifica, perché rischiare ?

In un recente articolo un noto fisico americano, facendo riferimento al caso dell’astrofisica, affronta un problema più generale che, soprattutto negli Stati Uniti, sta diventando sempre più importante. Ovvero che è una pratica comune tra i giovani di investire le proprie energie nella ricerca in maniera conservativa su idee mainstream, che sono già state esplorate nella letteratura. Questa tendenza è guidata dalla pressione dovuta della peer review, in quanto è più facile pubblicare ed essere citati quando si lavora su idee condivise dal maggior numero possibile di persone, e dalle prospettive del mercato del lavoro: solo coloro che pubblicano tanto, sono tanto citati e riescono a vincere progetti di ricerca, anch’essi basati sulla peer review, riescono alla fine ad ottenere delle posizioni permanenti. Al contrario, i giovani dovrebbero almeno diversificare la propria attività scientifica, lasciando spazio all’esplorazione di nuove idee e dunque dedicando una frazione del proprio tempo a progetti innovativi, che comportano rischi ma che potrebbero potenzialmente avere dei “ritorni” interessanti su tempi scala generalmente lunghi, mentre le commissioni di selezione e promozione dovrebbero trovare delle nuove strategie per premiare coloro che si imbarcano in tali imprese. Un tale cambiamento di strategia è vitale per la futura salute dello stesso processo scientifico.

Penso che queste importanti considerazioni trascendano il campo specifico cui si fa riferimento e che meritino una riflessione anche in quei campi in cui le dinamiche di “mainstream followers” sono evidenti, come ad esempio l’economia, dove anzi i criteri bibliometrici sono usati in maniera molto spesso impropria (ad esempio dando un’importanza spropositata all’impact factor) con un intento punitivo verso chi non fa ricerche su temi di mainstream. L’intero processo di valutazione può diventare negativo quando viene usato come strumento dalla maggioranza per ridurre al silenzio le minoranze. Se la fisica è stato un riferimento nell’elaborazione dei criteri bibliometrici quantitativi, è bene tener presente, a chi si ispira a questi modelli, quale siano i loro limiti e controindicazioni. E’ dunque necessario valutare la ricerca, ma è necessario farlo bene.

venerdì 3 settembre 2010

L’emergenza continua dell’Università


In fisica è spesso utile fare un Gedankenexperiment ovvero un esperimento concettuale che viene solo immaginato. Supponiamo dunque che il prossimo ministro dell’Università (ad esempio) sia quello che verrebbe scelto nel migliore dei mondi possibili, una sorta di Leonardo da Vinci nel suo campo. Supponiamo che si insedi domani o tra qualche mese e supponiamo anche che abbia una ragionevole dote finanziaria. Che cosa dovrebbe o potrebbe fare ? Per prima cosa dovrebbe iniziare a mettere le toppe alle drammatiche situazioni che si sono consolidate nel corso degli ultimi anni ma anche negli ultimi decenni. In altre parole prima di pensare in grande, con una visione prospettica che abbia una portata di qualche decennio, dovrà fare i conti con un’emergenza continua. E questo è necessario, vista l’accanimento dell’ultimo governo ma anche la negligenza e l’approssimazione con cui si sono mossi i governi passati. Ma è ovvio che una politica tappabuchi, anche se attuata dalle persone più serie e con le migliori intenzioni non porta lontano e non risolve i problemi strutturali a cui il sistema università-ricerca si trova di fronte.

Purtroppo per risolvere
problemi strutturali di questo tipo non basterebbe neanche un Leonardo da Vinci del momento. Quello di cui avrebbe bisogno il nostro ipotetico ministro è una solida conoscenza della realtà attuale ed un piano di riforme lungimirante, oltre ovviamente alle capacità di metterle in pratica che è un’arte molto difficile. Mentre quest’arte è la prima qualità del nostro ministro, la conoscenza dei fatti e la capacità progettuale devono essere fornite, necessariamente, dai suoi collaboratori. Non è immaginabile che una persona singola sia in grado di capire e ragionare su come riformare un sistema tanto complesso, litigioso, e pieno di prime donne che hanno già la loro propria ricetta, come quello dell’istruzione terziaria italiana.

Dunque l’abilità del nostro ministro sarebbe in primis quello di avere l’intelligenza politica di formare un
network di persone serie, competenti e di buona volontà che abbiamo preventivamente studiato e discusso i problemi in maniera analitica e proposto soluzioni. Solo un ragionamento collettivo ed approfondito può dar luce ad una riforma sensata, che comunque andrà seguita passo-passo, adattata e migliorata a seconda di come il sistema reagisce ai cambiamenti.

A me queste sembrano delle considerazioni abbastanza ovvie. Ma purtroppo non mi sembra che qualcuno si stia muovendo, all’interno dei vari partiti politici della supposta opposizione, in questi termini. Mi sembra anzi che invece di fare una politica dell’università e della ricerca (e questo è solo un esempio), da parte della politica, si faccia prevalentemente un’attività parlamentare (ad esempio emendamenti alla legge ora nella fase finale del suo iter parlamentare) con qualche trovata estemporanea ed evanescente con cui si finisce nei giornali per qualche settimana. C’è poca sostanza dietro, poco studio, poca riflessione. A mio parere, invece di rincorrere l’emergenza del momento la priorità dovrebbe essere proprio quella di
elaborare una strategia che abbia un’ampia prospettiva. Nel passato questo avveniva all’interno dei vari partiti, pur con tante contraddizioni, ma più passa il tempo e più il gioco politico sembra non avere un orizzonte temporale che superi il mese, e, aspetto ancora più grave, perdendo il contatto con il proprio mondo di riferimento. D’altro canto, a cercarli, ci sono dei singoli e dei gruppi di persone che si sforzano di trovare il bandolo della matassa: studiando. Finché non si riuscirà a pensare “in grande” si rimarrà inchiodati a rincorrere l’emergenza del momento senza aver chiara una direzione e dunque senza saper coinvolgere le persone dietro un’idea. Mi sembra che questo semplice ragionamento valga in qualsiasi contesto nella politica italiana (e soprattutto nell’opposizione attuale) ed è questa la frustrazione più grande di tanti: la consapevolezza dell’incapacità della politica di elaborare una proposta solida e lungimirante, al di là delle capacità del “Leonardo da Vinci” di turno.