"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.




martedì 5 ottobre 2010

Intervista su "Avvenire"









Stiamo protestando nell’unica maniera civile e legale che ci è  concessa». Così, in una “let­tera aperta a studenti e genitori”, il  Coor­dinamento nazionale ricercatori univer­sitari (Cnru) - 25.435  quelli in servizio, se­condo i dati 2009 del Ministero - spiega le  ragioni del blocco delle lezioni in tanti a­tenei, per la decisione dei  ricercatori di non insegnare più. A loro sostegno, sono scesi in campo  anche i docenti, costrin­gendo i Consigli di facoltà a posticipare  l’avvio del nuovo anno accademico.

«I ricercatori – si legge nella lettera aper­ta – si sono sacrificati  negli anni, svolgen­do un compito che permettesse di man­tenere la  qualità e la quantità dell’offerta formativa e cioè della didattica». In  altre parole, scrivono i promotori del Coordi­namento, «il ricercatore,  che deve fare ri­cerca e non “insegnare” e “fare lezione”» è stato  costretto a «scegliere tra il proprio dovere e l’interesse  dell’università e degli studenti». Il tutto per 1.250 euro al mese, che  diventano 1.500 dopo i primi tre an­ni, ma restano ben lontani dai  1.800-2mi­la euro mensili degli omologhi francesi e tedeschi.

«Da una crisi – prosegue la lettera del Cn­ru – si esce anche  sponsorizzando chi ha lavorato al di là delle proprie competen­ze,  perché ha mostrato il proprio valore. Molti, inoltre, perderanno il loro  posto di lavoro, perché “precari” o “a contratto”, pur avendo insegnato
e seguito gli stu­denti ». Di «vittoria dei ricercatori», parla  “Re­te29Aprile”, il «sito della protesta dei ri­cercatori universitari»,  a proposito del rin­vio al 14 ottobre della discussione parla­mentare  del disegno di legge di riforma dell’università. «Ci auguriamo – si  legge – che il governo sfrutti questa pausa di ri­flessione imposta, con  senso di responsa­bilità e saggezza, dalla Camera dei Depu­tati per dare  ascolto al mondo universita­rio e non solo ai rettori e per dare avvio a  una riscrittura radicale di questo disegno di legge».

A fianco dei ricercatori sul piede di guer­ra scende anche Francesco  Sylos Labini, autore, con Stefano Zapperi, del libro “I ricercatori non  crescono sugli alberi” (La­terza), un crudo spaccato sulla realtà di  questi studiosi. «Fanno bene a protestare: stiamo andando nella
direzione sbaglia­ta », dice Sylos Labini senza troppi giri di parole.  «In Italia – prosegue – le università hanno due grossi problemi,  collegati tra loro: il reclutamento dei nuovi professori e il  pensionamento dei vecchi, il cosid­detto ricambio generazionale. In  sostan­za, abbiamo la percentuale più alta di do­centi over 60 anni e la  più bassa di quella under 40».

Secondo l’analisi di Sylos Labini, in que­sti anni «l’università si è  mantenuta gra­zie ai 50mila precari, docenti “a contrat­to” che, se  passa questa riforma, non a­vranno più alcuna possibilità di diventa­re  professori a tutti gli effetti».

Del disegno di legge Gelmini, il ricercato­re contesta anche la volontà  di «abolire il ruolo del ricercatore, che è una delle po­che “valvole di  sfogo” per l’assunzione di chi esce  dall’università, e sostituirlo con la tenure track  americana». «Questa – ag­giunge Sylos Labini – negli Usa,  prevede l’assunzione a tempo determinato di 3 o 4 anni. Al termine, chi ha prodotto dei ri­sultati viene nominato professore in via definitiva.  Da noi, invece, si resta precari per decenni».*

Paolo Ferrario*

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