"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.




giovedì 25 novembre 2010

C’è speranza

L’università è un microcosmo in cui si rispecchiano tanti problemi e tante dinamiche che si svolgono a livello nazionale in tanti altri settori. A scala ridotta, si possono facilmente identificare i mali che affliggono il paese. In quello che succede in questi giorni è, ad esempio, chiaro il ruolo dell’informazione. Da anni sui maggiori quotidiani nazionali, dal Corriere della Sera a Repubblica, dal Sole24Ore alla Stampa, i commenti sulla situazione dell’università sono affidati a degli editorialisti che hanno lo stesso retroterra culturale, che sono portatori della stessa fanatica ideologia, anche spacciata come visione, e che hanno battuto il tasto della delegittimazione dell’università e della ricerca pubbliche proponendo in maniera quasi paranoica di fare tabula rasa dell’esistente e rimpiazzarlo con un altro sistema. Il dibattito è scomparso, a parte isolate e sparute voci di dissenso che si sentono più spesso solo quando accompagnate da azioni dimostrative, come ad esempio quella attuata in questi giorni con l’occupazione dei tetti di varie facoltà. Il controllo capillare dell’informazione è l’altra faccia della medaglia di un’egemonia culturale che ha preso il sopravvento. Ed il risultato è tangibile anche nell’azione della politica, sia dell’attuale governo che dell’attuale opposizione. Quest’ultima per troppo tempo ha cercato di trovare dei punti di convergenza con il governo in carica per elaborare una riforma “condivisa”. La bozza di legge del PD che ho letto un anno fa, certo migliore del DDL Gelmini, aveva la stessa impostazione: riforma della governance, abolizione del ruolo di ricercatore, introduzione della tenure track, solo per citare alcuni punti. Certo le posizioni erano più ragionevoli del DDL Gelmini, ma una volta scelta quella via il gioco era fatto. Perché le parole, a differenze delle idee, sono facilmente manipolabili e sui dettagli si può operare in maniera molto disinvolta, come infatti è successo. Le idee su come fare un’altra riforma sono rimaste troppo vaghe per troppo tempo.

Durante il governo Prodi l’università primeggiava nelle dichiarazioni di intenti. Ma non possiamo di certo concludere che durante quel governo siano state fatte delle riforme che si ricordino  ancora oggi. C’è stata una maggiore attenzione solo nel senso che si è cercato di tirare avanti mettendo toppe ad un sistema che perde acqua da troppe parti, a volte, come nel caso della stabilizzazione dei “precari” degli enti di ricerca, in maniera del tutto sbagliata. Soprattutto non c’è stata una visione culturale che sia rimasta impressa sul ruolo dell’università e della ricerca nella società e verso quale direzione indirizzare una riforma del sistema.  Dietro la riforma Berlinguer, che vista con occhi di oggi appare del tutto inadeguata e complice dello sfascio attuale del sistema, si muoveva un gruppo di persone impegnate e di comprovata esperienza. Il fallimento della riforma Berlinguer è stato accompagnato da un annichilimento di quelle forze e di quelle persone che l’avevano pensata. Il naufragio dell’esperienza del governo Prodi è stato il colpo di grazia. Al loro posto è subentrato quel ristretto gruppo di economisti fanatici che dagli inizi del nuovo millennio ha conquistato il monopolio mediatico e dunque anche culturale, con un messaggio devastante che, ripetuto infinite volte, ha fatto breccia e si è imposto. La riforma Gelmini è il frutto del suo tempo tanto che oggi si può fare un simpatico sondaggio dal titolo “Il ministro Gelmini accusa gli studenti che protestano e dice “difendono i baroni”: ha ragione?”. Questa è una domanda tanto paradossale quanto assurda. Mentre i ricercatori cercano di difendere il proprio futuro, i baroni o sono rappresentati dalla Conferenza dei Rettori che appoggia la riforma oppure, i più illuminati, guardano distrattamente a quanto succede.

Oggi si intravede una speranza che fa perno sulla presa di coscienza di una parte del mondo universitario della drammatica situazione in cui ci ritroviamo. In questi mesi, grazie all’azione di protesta contro il DDL Gelmini, si è creata una nuova coscienza comune che si era smarrita da un decennio. Quanto sia importante lo si è visto chiaramente nell’azione di pressione che ha avuto sull’opposizione parlamentare nel suo ruolo parlamentare. Da quanto è successo e sta succedendo tutti hanno da imparare. La politica che si rende conto che senza un confronto con le forze vitali dell’università non si va lontano e bisogna innanzitutto capire quali queste forze siano: a me sembra che vi sia anche una questione di percezione del problema da parte delle precedenti generazioni, quelle che hanno avuto una vita ed una carriera troppo diversa, da quelle delle attuali generazioni che sono più consce dei problemi reali  di oggi. Quelle che hanno subito troppe disillusioni per avere ancora le energie per affrontare la situazione. Anche i movimenti spontanei di studenti, precari, ricercatori e docenti hanno imparato, vedendo concretizzare l’effetto dei propri sforzi, che solo un impegno costante può portare a dei risultati. Questo non deve e non dovrà essere uno sprazzo estemporaneo ma bisogna gettare le basi perché si traduca in una situazione di dialogo permanente. La bussola alla politica deve pur venire da qualche altra parte, visto che non è capace di trovarsela da sola a prescindere dalle esigenze reali del paese. Ma la battaglia vincente si gioca sul piano culturale e d’influenza dell’opinione pubblica attraverso i media. Perché è proprio lì che finora si è perso troppo terreno che ora va riconquistato centimetro per centimetro.

(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano online)

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