"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.




mercoledì 1 dicembre 2010

L’ideologia e i suoi difensori







Ho già avuto modo di discutere le gesta del prof. Giavazzi, “economista” nostrano, e del suo feroce fanatismo intellettuale, conosciuto infatti per averci spiegato che “il sistema universitario e della ricerca in Italia non sono riformabili Illudendosi che sia possibile migliorare l’esistente in realtà si fa il gioco dei conservatori, cioè di coloro che sono responsabili del disastro in cui ci troviamo…”. L’unica soluzione diviene dunque quella di distruggere il sistema. Ringraziamo il prof. Giavazzi per la citazione, ma tale posizione ricorda molto (troppo) quella che il nostro paese ha già conosciuto in un recente passato, figlia di un pensiero massimalista tanto squilibrato quantopericoloso. Nel giorno della sua approvazione, per rettilinea coerenza, il prof. Giavazzi ci delizia con un dotto editoriale in difesa del ddl Gelmini, che viene presentato come la migliore riformapossibile in accordo sia con quel mondo politico che dell’università ha una conoscenza piuttosto approssimativa e sicuramente del tutto settoriale (o piuttosto, a cui non importa nulla), sia con unimprobabile gruppo di sedicenti docenti universitari della Fondazione Magna Carta, il cui presidente è tal Gaetano Quagliariello (forse un omonimo del senatore Pdl? Chissà!).

L’incipit della difesa giavazziana è una frase ritagliata da uno scritto di Luigi Einaudi “Del valore dei laureati unico giudice è il cliente:…”; sarebbe interessante conoscere quale sia il cliente, per esempio, di un fisico teorico, di un matematico, di un filologo, di un sociologo o di uno storico. Probabilmente lo scritto di Einaudi, esautorato dal suo contesto originario, assume un significato diverso da quello che il suo autore gli voleva impartire. Infatti, la citazione continua con “…questi (il cliente, ndr) sia libero di rivolgersi, se a lui così piaccia, al geometra invece che all’ingegnere, e libero di fare meno di ambedue se i loro servigi non gli paiano di valore uguale alle tariffe scritte in decreti che creano solo monopoli e privilegi”. Come è noto Einaudi in tale scritto si riferiva a tutt’altro problema, ovvero alla questione del valore legale del titolo di studio in particolare nelmondo delle professioni, il cui esercizio è subordinato all’iscrizione in un albo. La citazione è dunque fuori luogo sia per il contesto in cui essa era stata utilizzata sia perché in ogni caso non si può in nessun modo assimilare la ricerca di base, scientifica o umanistica, all’esercizio delle attività professionali. Come si può assimilare il lavoro del fisico teorico a quello del geometra e dell’ingegnere ?

Ovviamente si tratta di attività diverse e bisogna avere una visione dell’istruzione e della ricercamicroscopicamente limitata e pesantemente schiacciata da un’ideologia aberrante per estendere questa considerazione all’università nella sua complessità ed eterogeneità di compiti, insegnamenti e  ricerca. Ma, come ho già avuto modo di notare, sono proprio queste idee ottocentesche che abitano nella testa di chi intende riformare il sistema universitario italiano nel 2010. E dunque  di chi difende e avalla lo sciagurato ddl Gelmini.

Questo inizio è utilizzato dal nostro eroe per bacchettare la riforma Gelmini poiché non permette di aumentare a piacimento le tasse universitarie e non abolisce il valore legale del titolo di studio (altre manie bocconiane, come ci  insegnerebbe il prof. Perotti). Certo, la riforma perfetta sarebbe stata quella di radere al suolo il sistema universitario pubblico, ma in assenza di questa possibilità, contentiamoci di una legge che paralizza le università per i prossimi anni, le ridimensiona sensibilmente e umilia quel corpo docente fatto solo di perversi baroni e dei loro servi della gleba, i ricercatori. Tanto l’eccellenza nel sistema pubblico non c’è. Si conclude questa introduzione – presa di distanza fittizia -  con: “Il ministro Gelmini non ha il coraggio di Luigi Einaudi”. Probabilmente non è l’unica qualità d’Einaudi che la nostra ministra non ha.

Nella lista dei presunti meriti del ddl Gelmini, secondo il prof. Giavazzi, ci sono una serie di affermazioni che distorcono la realtà, in quanto false. Vediamone qualcuna. “Il risultato, nonostante tutto, non è poca cosa. La legge abolisce i concorsi, prima fonte di corruzione delle nostre università”. Forse il prof. Giavazzi intende dire che con il taglio del 20% effettuato nel 2008 al finanziamento universitario le risorse per nuovi posti non ci saranno più e dunque niente più concorsi. Perché, altrimenti non c’è nessuna traccia d’abolizione di concorsi nel ddl Gelmini!

“Crea una nuova figura di giovani docenti «in prova per sei anni», e confermati professori solo se in quegli anni raggiungano risultati positivi nell’insegnamento e nella ricerca. Chi grida allo scandalo sostenendo che questo significa accentuare la «precarizzazione» dell’università dimostra di non conoscere come funzionano le università nel resto del mondo”. E quali sarebbero le università del mondo in cui non si assicura all’origine la copertura finanziaria di una tenure-track(sottoposta a valutazione, ovviamente)? Una bugia ripetuta mille volte non diventanecessariamente verità, soprattutto per coloro che la dovranno sperimentare sulla propria pelle. Ma certo che può diventare realtà virtuale per un’opinione pubblica distratta e offuscata da un’incalzantepropaganda di disinformazione.

Prosegue il Nostro: “«Non si fanno le nozze con i fichi secchi», è la critica più diffusa. Nel 2007-08 il finanziamento dello Stato alle università era di 7 miliardi l’anno. Il ministro dell’Economia lo aveva ridotto, per il 2011, di un miliardo. Poi, di fronte alla mobilitazione di studenti, ricercatori, opinione pubblica e alle proteste del ministro Gelmini, Tremonti ha dovuto fare un passo indietro: i fondi sono 7,2 miliardi nel 2010, 6,9 nel 2011, gli stessi di tre anni fa”. 

Addirittura le proteste del ministro Gelmini? Ci erano proprio sfuggite. Comunque, fin quando le prossime finanziarie non verranno approvate, questi sono numeri a casaccio. E, come notato dal direttore de “Le Scienze” Marco Cattaneo: “In realtà, come tutte le riforme che praticano la politica dei tagli lineari – ah, se solo il presidente della Camera fosse coerente con i suoi proclami – anche la riforma Gelmini penalizzerà la parte sana dell’Università italiana e lascerà indenne quella malata”.

Inoltre aggiunge il prof. Giavazzi: “La legge innova la governance delle università: limita l’autoreferenzialità dei professori prevedendo la presenza di non accademici nei consigli di amministrazione (seppure il ministro non abbia avuto la forza di accentuare la «terzietà» del cda impedendo che il rettore presieda, al tempo stesso, l’ateneo e il suo cda)”. Abbiamo già visto quali siano gli effetti dei “non accademici” nei consigli di amministrazione delle università e a quali risultati di eccellenza questi conducano come nel caso della LUISS e dell’IIT, grazie. Prosegue: “Per la prima volta prevede che i fondi pubblici alle università siano modulati in funzione dei risultati.

 La valutazione è l’unico modo per non sprecare risorse, per consentirci di risalire nelle graduatorie mondiali e fornire agli studenti un’istruzione migliore”. La legge, però, prevede solo deleghe (chi le farà?) in tema di valutazione (l’ANVUR è una scatola vuota da parecchi anni e tale è rimasta sottol’epocale ministero Gelmini)

Infine: “Davvero Bersani pensa che se vincesse le elezioni riuscirebbe a far approvare una legge migliore? Migliore forse per chi nell’università ha avuto la fortuna di riuscire a entrare. Dubito per chi ne è fuori nonostante spesso nella ricerca abbia ottenuto risultati più significativi di chi è dentro”. A prescindere da Bersani (sic), una riforma sensata dell’università si potrà fare solo a condizione di svolgere uno studio approfondito sullo stato attuale dell’università italiana confrontandolo con quanto avviene in paesi europei, che conoscono sistemi vicini al nostro, e individuando un modello di riferimento realistico (quello della Francia ad esempio). Soprattutto si potrà fare quando si ascolterà anche la voce di coloro che nell’università ci sono appena entrati e ne rappresentano la parte più innovativa e dinamica, come la voce di coloro che ancora non hanno avuto la possibilità di essere assunti o semplicemente di fare un concorso degno di questo nome. Certamente non si farà una riforma sensata seguendo le elucubrazioni di un economista passatista ottenebrato da un’ideologia di riporto. E chi ci prova ora, ne pagherà, prima o poi, le conseguenze politiche, culturali ed intellettuali.

Segnalazioni
I pensieri di una ricercatrice sui tetti dell’università di Roma: Francesca Coin alla trasmissione Via con me 
Lettera aperta ai Rettori, ai Presidi di Facoltà, ai Direttori di Dipartimento e ai Presidenti di Consiglio di Corso di Studio delle Università Statali Italiane
Ricercatori e professori non disponibili a distruggere l’università pubblica


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